Io Capitano, presentazione con Matteo Garrone

29.10.2023

Siamo stati invitati alla presentazione del film Io Capitano, con Matteo Garrone, al cinema Rouge et Noir, Palermo.

Io, capitano per davvero

Intervista con Alessia Candito per La Repubblica

Di Alessia Candito - Pubblicato su La Repubblica Palermo.

Io, capitano per davvero. "Spero che il film faccia capire che gli scafisti veri non hanno bisogno di attraversare il mare"

MJ ha affrontato un processo lungo sette anni perché obbligato a guidare il barchino su cui è arrivato in Italia nel 2016. Al cinema ha visto il film di Matteo Garrone. "Sono tornato sulla barca". Ma della Libia "il racconto è edulcorato, nessuno immagina cosa significhi vivere là"

"La gente deve capire che chi guida una barca non è uno scafista, un trafficante. Quelli non hanno alcun bisogno di rischiare la vita in mare, stanno comodi in Libia guadagnando su chi lo fa. Non hanno bisogno dell'Europa. Dopo questo film spero che la gente lo capisca".

MJ un capitano lo è stato davvero. Ma la sua vita non è un film e per lui, non sono arrivati né premi, né onori come per il giovane attore Seydou Sarr, protagonista dell'ultimo film di Matteo Garrone. All'arrivo in Italia nel 2016, per MJ ci sono stati sette anni di processo, di accuse, un periodo in carcere. Esattamente per come Fofana, il ragazzo che ha ispirato "Io Capitano", a dispetto dei suoi sedici anni persino rinchiuso per due mesi in un istituto di pena per adulti.

"Neanche ci si immagina cosa voglia dire finire dentro per una persona appena arrivata in Italia, che sogna di avere diritti, di conoscere la libertà e invece finisce in manette – spiega MJ - Non capisce cosa gli stia succedendo, non parla la lingua, non ha nessuno fuori che gli possa far arrivare anche solo dei vestiti puliti". La solitudine è assoluta.

Per lui è stata dura. Così come è stata dura rivedere sul grande schermo il viaggio, la traversata, la Libia raccontate da Garrone. "Mi è tornato in mente tutto quello che ho vissuto, mi sono sentito di nuovo su quella barca. Anche io ho guidato e non lo avevo mai fatto. Ma no, non ho avuto paura. Avevo deciso che avrei raggiunto l'Europa o sarei morto in mare. Rimanere in Libia non era un'opzione".

Quella raccontata da "Io Capitano" è una versione molto edulcorata. "Tu non immagini neanche cosa possa succedere lì – racconta MJ – Ho visto gente picchiata, torturata, ammazzata. La tua vita lì non vale niente". In Libia non si vive, si sopravvive e ogni giorno si muore un po'. Ecco perché partire non è una scelta, ma solo un modo di mettersi in salvo. "La traversata non è facile, si sa che puoi morire, ma quando sei lì non hai alternative".

La sua partenza risale a sette anni fa. "E ancora si muore in mare. I numeri delle vittime che abbiamo forse sono solo la metà di quelli reali perché della maggior parte dei viaggi non si sa più nulla". Insieme agli altri attivisti di Alarm Phone, ai naufraghi prova a dare una mano. Raccoglie le loro chiamate, rilancia le loro richieste di aiuto. "È difficile, senti tutto il terrore di chi in quel momento sta rischiando la vita, non sa cosa fare, deve cercare le coordinate per segnalare la propria posizione e a volte neanche ci riesce. Abbiamo il dovere di aiutarli, dobbiamo esserci per i nostri fratelli".

Quello però non è un lavoro, "è un piacere, una cosa che sento il bisogno e il dovere di fare". Ed è lo stesso quando, insieme agli altri dell'associazione Baye Fall, visita in carcere i ragazzi bollati come scafisti e lasciati lì. Confusi, perplessi, soli. Una rete, contatti, rapporti sono quelli che ti salvano quando, straniero in un Paese che non conosci, ti ritrovi anche a fare a botte con la burocrazia.

"Probabilmente – spiega – neanche si immagina che ci sono ragazzi che aspettano anche sei o sette anni prima di avere i documenti e senza non puoi fare nulla. O magari che ti vengono consegnati con sei o più mesi di ritardo da quando vengono emessi".

MJ la sua strada l'ha trovata. Un corso da saldatore appena finita la detenzione gli ha dato un mestiere diverso da quello di soldato che ha sempre fatto in Senegal, per anni ha lavorato, ha messo i soldi da parte, adesso è un sommozzatore professionista e vive di quello. "Quando sono giù non penso mai a chi è rimasto sul fondo del mare. Attraversarlo è una cosa molto difficile ed è una cosa che non si può dimenticare. Ma bisogna superarlo, andare avanti, andare oltre". Anche in quegli abissi che per lui avrebbero potuto essere una tomba e oggi lo sono per migliaia di persone.

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